Rivera, golden 80

Roberto Beccantini18 agosto 2023

In un turbinio di pallottole fra ex sposi (Roberto Mancini e Gabriele Gravina; Aurelio De Laurentiis, Luciano Spalletti e Gravina), Gianni Rivera compie 80 anni. Come ho scritto su «Sport del Sud», si parla di un simbolo, di un microfono capace di «liberare» un anello pericolante di San Siro, il pomeriggio della Stella (6 maggio 1979, Milan-Bologna 0-0). Di un parallelo che ci divise in due come la Corea, fra il Nord difensivista di Gianni Brera e il Sud napoletano degli offensivisti (Antonio Ghirelli, Gino Palumbo).

L’Abatino breriano, appunto, il «Tocco in più» di Oreste Del Buono. Il secondo pallone d’oro della nostra bacheca (dopo l’oriundo Omar Sivori: era il 1969 e Gigi Riva, beffato, s’infuriò). L’essenza circense del compromesso storico, la staffetta messicana con Sandro Mazzola che ci obbligò a schierarci, o di qua o di là, o per Sua Leggerezza o per il Baffo. Il piatto destro ai tedeschi nel partido del siglo, i sei minuti della finale con il Brasile di Pelé (al posto di Roberto Boninsegna, però), ennesima miccia dell’ennesima zuffa.

Il golden boy. Intervistato in tram da Beppe Viola, torchiato a tavolino da Oriana Fallaci. Battesimo ad Alessandria (a 15 anni e rotti), poi solo Milan: dal 1960 al 1979. Nel dettaglio: 3 scudetti, 4 Coppe Italia, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe delle Coppe, 1 Coppa Intercontinentale (strappata all’Estudiantes di Carlos Salvador Bilardo in una notte di pestaggi sanguinari e sistematici, ben riassunta dagli zigomi di Nestor Combin). In azzurro, campione d’Europa nel 1968 e vice campione del Mondo nel 1970.

Per dirla seraficamente con Vujadin Boskov: vedeva autostrade dove gli altri solo sentieri. Numero dieci, di scuola Schiaffino, non leader subito, ma piano piano,
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Il resto, Mancio

Roberto Beccantini13 agosto 2023

Altro che clamoroso al Cibali. Clamorosissimo. E proprio nella giornata mondiale dei mancini. Da oggi, Roberto Mancini non è più il ct della Nazionale. Ha rassegnato le dimissioni, spiazzando tutti. Era in carica dal 14 maggio 2018. Porta con sé il titolo europeo del 2021, la sconfitta di Palermo con la Macedonia del Nord, costata l’assenza al Mondiale qatariota del 2022, seconda consecutiva sul campo, a ruota della «Corea» svedese, quando al governo c’era Carlo Tavecchio e in panchina Gian Piero Ventura. Più due terzi posti in altrettante edizioni di Nations League. Più una striscia-record di 37 gare utili.

Alzi la mano chi. La mia, per pudore, viaggia rasoterra. Roberto venne scelto da Roberto Fabbricini, all’epoca commissario straordinario delle Federazione. Gabriele Gravina non è che se ne sia mai invaghito ma l’aria di Wembley, figuriamoci. Siamo tutti alla caccia del detonatore: lo sventramento dello staff proprio in coincidenza con la qualifica di coordinatore supremo? Le voci di un Gravina fin troppo bonucciano (pur di garantire un posto al Leonardo trombato dalla Juventus)? Una mega proposta dall’Arabia? Il saccheggio della sua Camelot sarebbe, al momento, l’ipotesi più romantica; la tentazione saudita, la più prosaica.

Roberto va per i 59, che compirà il 27 novembre. E’ stato un fuoriclasse sottovalutato e un allenatore sopravvalutato. Capace, da ct, di esprimere il meglio (e, alla frutta, l’ovvio). Ha ridato spirito e gioco a un volgo disperso. Ha riavvicinato il popolo all’azzurro. Ha avuto intuizioni coraggiose, da Nicolò Zaniolo a Mateo Retegui. Ha pagato la carenza di centravanti di peso, ruolo sequestrato dagli stranieri. E’ caduto sulle bucce di gratitudine fatali, a volte, più di certi pugnali. Si è arreso alla più elementare delle leggi: la differenza dei giocatori.
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Pugno chiuso

Roberto Beccantini2 agosto 2023

Il portiere è sempre stato un uomo solo al comando di altri. Un po’ meno da quando le regole, limitandone i privilegi, l’hanno portato in mezzo alla squadra, custode geloso e permaloso di un territorio sotto perenne invasione. Umberto Saba lo cantò nella poesia «Goal»: «Il portiere caduto alla difesa, ultima vana». Fernando Acitelli dedicò a Gianpiero Combi «L’elogio delle ginocchiere». In porta giocava Albert Camus, negli anni «frementi» di Algeri. Lui, premio Nobel per la letteratura nel 1957. E anche Vladimir Nabokov, l’autore di «Lolita», come ha ricordato nella sua autobiografia «Parla, ricordo». E Julio Iglesias, cantante melodico da 300 milioni di dischi, fu addirittura portiere delle giovanili del Real Madrid. Uno spaventoso incidente d’auto gli cambiò la vita. E la carriera.

Lev Jascin è l’unico ad aver conquistato il Pallone d’oro, nel 1963, tempi in cui si giocava poco e la televisione era di una castità bigotta, nel senso che, del calcio, mostrava il minimo indispensabile. Negli oratori, tra i pali, ci finiva di solito il più brocco. Poi il più pazzo. Piano piano, le scuole di pensiero hanno fissato confini meno soffocanti: e persino la sobrietà dei gesti ha guadagnato il suo spazio, i suoi diritti. Segnare incendia, non far segnare spegne. Eppure anche le parate hanno accompagnato, e spesso orientato, la storia, contribuendo a ridurre le differenze dei mestieri, le lontananze tra le emozioni.

Se Dino Zoff è stato il portiere italiano (e non solo) del Novecento, Gianluigi Buffon è stato il portiere italiano (e non solo) del Duemila. Gigi ha annunciato il ritiro a 45 anni, dopo doglie interminabili e, immagino, dolorose. Chiudere è sempre più complicato di aprire: soprattutto se hai segnato un’epoca. Fra i pali, di una potenza inaudita e di una reattività folgorante.
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